La nostra storia
Il lavoro di spoglio ed esame di vecchi documenti per ricostruire le
vicende di un’epoca, di un personaggio, di un’istituzione non è sempre
apprezzato. C’è chi lo giudica grigio e noioso, da certosini, da topi di
biblioteca, tipico di professori pedanti e di studentesse sgobbone che
vogliono ben figurare con una tesi zeppa di minuzie erudite.
Eppure il Manzoni afferma che solo la conoscenza dei documenti originali
riesce a far risentire di un avvenimento l’atmosfera di allora, il
senso drammatico dello sforzo e della sofferenza umana che nessuna
ricostruzione storica successiva potrà mai esprimere in modo altrettanto
pieno.
Il Bollettino del Club Alpino Italiano, numero 31, 3° trimestre dell’anno 1877, a pagina 491, tra le “Comunicazioni Ufficiali” reca il seguente annuncio: “Costituzione di una nuova Sezione in Pinerolo (Alpi Cozie)” e prosegue: “il 23 luglio la Presidenza del Club autorizzò, a senso dell’articolo 21 dello Statuto, la costituzione della Sezione di Pinerolo, con iscrizione dal 1° gennaio 1877. La nuova Sezione ha sede presso il Circolo Sociale nel palazzo del teatro e conta 120 soci. La Direzione consta del presidente Davico cavaliere avvocato Giorgio, del vice-presidente Buffa di Perrero avvocato Vincenzo e di sette direttori” (leggi Consiglieri)
C’è la tendenza a sorridere di certo stile fine ottocento, un tantino ampolloso e sonante, eppure questo testo è un modello di chiarezza e brevità. Evidentemente sotto la guida di Quintino Sella il C.A.I. era parsimonioso non solo nell’uso dei fondi sociali, ma anche nelle parole dei comunicati.
Ma la biblioteca civica di Pinerolo riservava ancora un ghiotto ricupero: una copia del “Regolamento, discusso ed approvato dall’Assemblea dei soci, in adunanza 15 settembre 1877”. Si tratta d’un opuscolo di 7 pagine, stampato a Pinerolo dalla Tipografia Chiantore e Mascarellli nel 1878 e contenente 17 articoli. Di particolare interesse sono il 3, che indica lo scopo della sezione: “promuovere lo studio delle montagne, specialmente di quelle esistenti nel Circondario, e di farle conoscere” e il 5, che fissa la quota sociale a lire 20 (“di cui 8 sono versate alla Cassa Centrale”), pagabili a rate trimestrali anticipate”.
Venti lire di allora corrispondevano ad un marengo oro, quando il salario giornaliero di un operaio arrivava appena a due lire. A parte le proporzioni con la quota attuale, non è difficile stabilire che l’iscrizione era possibile solo ad una cerchia limitata di persone. Per quante ricerche si sono fatte, non è stato possibile trovare l’elenco dei 120 soci di allora, perché i documenti della sezione sono andati perduti, tuttavia non occorre un profondo acume storico per supporre che dovessero appartenere all’alta borghesia cittadina, con qualche rappresentante delle vecchie famiglie nobiliari e degli ufficiali del presidio.
Per meglio collocare la Sezione di Pinerolo, nata da poco, in una cornice storica precisa, giova ricordare (Bollettino n. 33, del 1877, pag. 642) “la statistica dei soci del C.A.I. inscritti al 31 dicembre 1877”: essi sono 3511, distribuiti in 34 sezioni; Pinerolo figura con 120 soci ed è superata da 11 sezioni. La più numerosa è Varallo Sesia con 380, mentre Torino ne conta solo 295.
Ora sarebbe assai interessante sapere quale tipo di attività alpinistica praticassero questi 120 soci; se veniva predisposto all’inizio dell’anno un programma di escursioni sociali, se lo si effettuava, e quanti partecipavano a ogni gita. Pur nella mancanza di dati sicuri, sembra attendibile immaginare che queste forme di organizzazione, abituali per noi, allora non si tentassero neppure: l’attività, lasciata all’iniziativa dei singoli, era occasionale e sporadica, e assai modesta nel suo insieme. Mete principali erano le vette della Val Chisone, Pellice, Lemina più facili e a portata di mano: Freidour, Vaccera, Vandalino, Gran Truc, Assietta, e altre del genere.
C’era però anche chi batteva vie del tutto diverse. Come quel Carlo Rossi che nel 1876, quando la sezione non era neppur costituita, partecipava, con i torinesi Fiorio e Ratti, a un’impresa avveniristica per i tempi, la conquista del Boucier, in prima assoluta e, quel che più importa, senza guide. Doveva essere un temperamento spregiudicato questo signor Rossi per lanciarsi in una simile avventura con quei suoi amici, che erano certo guardati con diffidenza, e forse tacciati di rompicolli dai loro severi colleghi, i quali non si muovevano se non scortati da guide. E’ un titolo non piccolo di merito per l’alpinismo pinerolese dell’epoca.
L’ascensione più ambita era pur sempre il Monviso, che allora, a 16 anni dalla prima salita, era considerata, non senza qualche ragione, una prodezza da far “gemere i torchi”. Così almeno la pensava l’avvocato, cavalier Vincenzo Buffa di Perrero, poi vicepresidente della sezione, il quale nel 1876 pubblicava a Pinerolo un opuscolo di 31 pagine intitolato “Un’ora sul Monviso – Lettera al rev. padre Francesco Denza”, seguito nel 1877 da altri tre: “Per la Valle del Chisone – Brevi cenni”, “Ricordi de Monviso – 30-31 luglio 1877”, tutti stampati dalla Tipografia Chiantore e Mascarelli.
Dopo questo primo exploit letterario, egli promuoveva la traduzione e la pubblicazione della parte della “Guida Alpina” dell’inglese John Ball (un’autorità in materia) riguardante le valli del pinerolese. Così nel 1879 usciva, per i tipi di Chiantore e Mascarelli, la “Guida delle Alpi Cozie – Distretto del Viso – Distretto Valdese”, nella traduzione di R. E. Budden, con note aggiunte del Cav. Buffa e del Dott. Rostan (pagine 110, Lire 2,50).
L’opera è una miniera di notizie alpinistiche e turistiche, alcune delle quali acquistano ai nostri occhi, a distanza di molti anni, un alone pittoresco. Ad esempio, a pagina 57 apprendiamo che a Pinerolo c’è un “Ufficio d’Omnibus situato all’ingresso dei Portici Nuovi. E’ diretto dal signor Vigliani con vetture a nolo e con servizio periodico per: Fenestrelle, tutti i giorni, partenza alle 8,30 ant., prezzo lire 3; Perosa tre partenze al giorno, prezzo lire 1,25”. Segue l’elenco delle corse per gli altri paesi del circondario, con l’indicazione delle ore di partenza e dei prezzi relativi.
Se vogliamo prenderci la soddisfazione di leggere un itinerario, diciamo quello che porta al Freidour, ecco pronta la descrizione a pagina 62: “[dal Colle Pra l’Abbà] per salire al Freydour conviene piegare a destra, ed in meno di mezz’ora, fra cespugli di eriche e muscose zolle, fra qualche ripido detrito, e qualche masso ispido e malagevole, si tocca la vetta (m 1443), ossia il Segnale, così detto da un segnale postovi all’epoca della triangolazione operata dallo Stato Maggiore. E’ superfluo dire che la vista onde si gode da questa vetta è stupenda, potendo abbracciare quasi in un solo amplesso…” e continua a lungo citando vallate, città, paesi, per concludere “si stendono successivamente con un’incantevole varietà di tinte”.
C’è in queste righe il tono incantato della scoperta, la commozione del pioniere che, superata la Sierra Nevada, si affaccia alla Valle del Sacramento. Al confronto le nostre guide moderne, con la loro pretenziosa precisione tecnica, devitalizzate e irte di formule come un oracolo delfico, hanno il compassionevole aspetto di una confezione di ravioli acquistata al supermercato, sterilizzata e gelidamente anonima, vicino ad un piatto casalingo chiazzato di colori e turgido di sapori e profumi sottili.
Naturalmente non si trascurava la scienza. Il Club Alpino era stato fondato e diretto nei primi decenni da illustri studiosi, Sella, Gastaldi, Saint Robert, Denza, Baretti, per non citare che i più noti, i quali non si limitavano a salire le cime delle Alpi, ma ritenevano loro dovere di scienziati e d’italiani studiarle con passione e descriverle con rigore scientifico. Geologia, mineralogia, meteorologia, zoologia, botanica, paleontologia, topografia hanno ampio spazio nelle loro relazioni.
A questo scopo era stata impiantata anche a Pinerolo fin dal 1866 una stazione meteorologica, secondo i suggerimenti del barnabita Francesco Denza (direttore dell’osservatorio annesso al Collegio di Moncalieri) alpinista e benemerito di questa disciplina in Italia.
Appena costituita la sezione del C.A.I., la stazione passò sotto la sua tutela e fu affidata alle cure del professor C. Ciceri, insegnante di scienze nel liceo cittadino. Egli s’impegnava a fare le osservazioni tre volte al giorno, a ore fisse, e a comunicare i dati raccolti al padre Denza, il quale li elaborava e pubblicava in speciali e fitte tabelle mensili allegate al Bollettino. Le stazioni erano 90 in tutta Italia, dal Piccolo San Bernardo a Pontebba, da Auronzo a Reggio Calabria. Uno dei tanti servizi a carattere volontaristico assunti via via dal nostro sodalizio nella sua lunga vita.
Non potevano mancare, nel clima di allora, le iniziative di tipo patriottico. Subito dopo la morte del Re Galantuomo si dà notizia (Bolletino n. 33, 1878, pag. 128) dell’apertura di “una sottoscrizione per erigere uno speciale monumento a S. M. Vittorio Emanuele II, presidente onorario del Club, e si autorizzano le Sezioni a ricevere le offerte”. Tra esse figura Pinerolo, con sede nel Palazzo del Teatro.
Del 1879 è il resoconto, firmato da Cesare Isaia, presidente della Sezione di Torino, della cerimonia avvenuta il 21 luglio alla Testa dell’Assietta, su iniziativa delle Sezioni di Pinerolo e Torino, per la posa di una lapide, a ricordo della famosa battaglia, su un pilone in muratura sormontato da un’aquila che tiene tra gli artigli lo stemma del C.A.I. Questo del monumento all’Assietta è un “ricorso” nella storia della nostra sezione in cui c’imbatteremo altre volte.
Alle Assemblee dei Delegati Pinerolo manda regolarmente i suoi rappresentanti (incarico che tocca per un certo tempo soprattutto all’avvocato Carlo Ubertalli) mentre ai Congressi Annuali interviene questo o quel socio a titolo personale: a quello d’Ivrea del 1879 partecipa l’avvocato Fulgenzio Canova.
Insomma, si ha la netta impressione di un complesso che procede a pieno ritmo, con una presenza vivace in tutti i campi in cui si svolge l’attività del club. Eppure la forte spinta iniziale si esaurisce in un paio d’anni, ai quali succede una breve fase di stanca, seguita da un lento, inesorabile declino.
La statistica dei soci al 31 dicembre 1878 vede Pinerolo a quota 124 (con un incremento di 4 nuovi iscritti rispetto all’anno precedente), superata solo da 8 sezioni; ma nel dicembre 1880 è già scesa a 92.
Il Bollettino n. 48 del 1881 reca in appendice il quadro generale delle sezioni(ora sono già 35) e, di ognuna, la Direzione e l’elenco dei soci. Pinerolo ne conta solo più 67 e finalmente possiamo leggerne i nomi. Di essi 25, più di un terzo, sono avvocati, causidici, notai: che le pandette e i codici siano la miglior propedeutica alla montagna?
Vi compaiono esponenti di vecchie famiglie cittadine: Cesare e Ernesto Bertea, Giulio e Luigi Maffei, Stefano Fer, Giovanni Enr. Poet, Achille Midana, Sebastiano Cerutti, Giovanni Bertelli, Pietro Risso; accanto a 4 ingegneri (tra cui Giovanni e Stefano Cambiano), 2 geometri, 2 sacerdoti (uno è il teologo Alessandro Griffa, parroco di Perrero) 2 conti, 1 dottore (Giuseppe Beisone). Gli altri non hanno titoli accademici o nobiliari; notiamo Pietro Fabre, Alberto Vagnone, Matteo e Michele Bosio, Camillo Armandis, Antonio Mascarelli, Giovanni Aymar, Francesco Poccardi.
Alcuni soci sono di paesi vicini, Luserna, Cavour, Barge, Perrero. Anche nella Direzione c’è stato un avvicendamento: presidente è ora il cav. causidico Federico Rolfo, vicepresidente Michele Pasquet; non figura più tra i soci il solerte avvocato-scrittore Buffa di Perrero. La sede della sezione è stata trasferita in Piazza d’Armi, nel locale del Bersaglio.
Dal 1882 il Bollettino diventa, da trimestrale, annuale e non ospita più le Comunicazioni Ufficiali della Sede Centrale e delle Sezioni, che escono d’ora in poi nella Rivista Mensile. Pinerolo sale ancora agli onori della cronaca alpina nazionale per l’opera di ricostruzione del cippo dell’Assietta. Ma lasciamo la parola al cronista contemporaneo: “…al principio della state 1881 questa lapide fu trovata infranta, spezzata l’aquila che sul monumento teneva fra gli artigli lo stemma sociale del C.A.I., divelta la cassettina che nell’interno del pilone conteneva le consuete memorie di ogni inaugurazione”.
La Direzione della Sezione Pinerolese, riunita in seduta straordinaria, approva un vibrato ordine del giorno in cui si afferma: “Che la distruzione del pio ricordo o venga da crassa ignoranza, o da bieca invidia, o da qualsivoglia altro malevolo istinto, e pur sempre un fatto di lesa civiltà, e che ogni animo gentile altamente ripugna. Che il Ricordo stesso deve senz’altro venir tosto ricostrutto ed a qualunque costo mantenuto”.
E, passando dalle parole ai fatti, prende l’iniziativa di formare un Consorzio tra le Sezioni di Pinerolo, Susa, Torino per ricostruire il monumento. Il Consorzio costituisce un Comitato Promotore e uno Artistico e apre una sottoscrizione nazionale tra i soci del C.A.I. A metà del 1882 essa ha già raccolto lire 4146,50 (una grossa somma per quei tempi, pari a 207 marenghi d’oro), mentre il Comitato Artistico ha scelto uno dei progetti presentati dall’ing. Riccardo Brayda e avviato sollecitamente i lavori.
In una nota apparsa sulla Rivista Mensile (1882, pag. 67) sono accennati i dati tecnici dell’opera: “Base e piramide saranno costruiti in pietra del Malanaggio (Valle del Chisone, inferiormente a Fenestrelle) lavorati a martellina grossolana, ed a martellina fine sugli spigoli. Il volume della pietra occorrente misura metri cubi 8,507; i quali, per necessità di trasporto dalla cava alla Testa dell’Assietta, sono rappresentati da 120 massi di pietra…”.
Finalmente il 23 luglio la gran cerimonia dell’inaugurazione, in vista della quale il Comitato studia ogni particolare con una forma di organizzazione che risulterà perfetta. Anzitutto fissa un itinerario d’accesso dalla Valle Susa e uno dalla Valle Chisone, poi fa sorgere un grande attendamento nella località detta Vallone dei Morti, per coloro che desiderano pernottare (quota L. 3), e una mensa con oltre 200 posti (quota L. 4); quindi predispone un servizio d’omnibus da Pinerolo a Fenestrelle (concessionaria l’impresa De Giorgis di Pinerolo; tariffa L. 5); infine a tutti i partecipanti, all’atto dell’iscrizione, consegna una tessera di adesione e una carta topografica al 25.000, espressamente pubblicata per l’occasione, della regione dell’Assietta.
L’affluenza supera ogni attesa e la manifestazione riesce imponente. Secondo il resoconto di Cesare Isaia (Rivista Mensile, 1882 pag. 110 e segg.) la comitiva ufficiale era composta di circa 220 persone, tra cui i rappresentanti del Re, dei Principi di Casa Savoia, del Ministero della Guerra, dell’Esercito (12 ufficiali di ogni arma e la 13° e 14° Compagnia Alpina, per un totale di 450 uomini), gli addetti militari di Francia e Spagna presso le rispettive ambasciate a Roma, due deputati, quasi tutti i sindaci delle due vallate, varie autorità di ogni grado, gli inviati di 16 giornali (dal Corriere della Sera alla Gazzetta del Popolo all’Osservatore Romano), 20 carabinieri e la Banda di Pinerolo in servizio d’onore e “parecchie migliaia di alpigiani e non piccola turba cittadina”.
Toccava ai pinerolesi fare gli onori di casa: il cav. Federico Rolfo, presidente, tenne il discorso ufficiale, sottolineato da lunghi scrosci di applausi, e l’avv. Giovanni Bertetti, segretario, stese il verbale dell’inaugurazione. Seguì, dulcis in fundo, un pranzo all’attendamento.
La gran giornata deve aver fatto epoca per lungo tempo nella zona.
Per tutti gli anni ottanta la sezione compare nelle pagine della Rivista Mensile solo più con la situazione dei soci (che continuano ulteriormente a diminuire: al 30 dicembre 1884 sono scesi a 55, nel 1886 a 48; e la tendenza non accenna ad arrestarsi), l’elenco dei membri della direzione e dei delegati, che non presenta variazioni degne di nota. Nel 1886 si ha una nuova rotazione nel direttivo: neoeletti il farmacista Filippo Defabianis, gli avvocati Eugenio Camussi e Alessandro Banfi, il cav. Tommaso Boarelli, il prof. Davide Monnet. Tre ex-dirigenti della vecchia guardia, Davico, Bertetti, Costantino sono nominati membri onorari.
Si avverte un senso di stanchezza che sembra preludere ad una fine ormai vicina. Invece dopo il novanta si registrano sintomi di ripresa, pur nel grave lutto per la morte quasi improvvisa, a 58 anni, del presidente Federico Rolfo. L’avvocato Attilio Fer, che è il vero animatore della vita sezionale negli ultimi dieci anni, ne scrive un ricordo affettuoso e commosso, e all’Assemblea dei Delegati il Presidente Generale avv. A. Grober ha parole di sincero rimpianto per l’amico scomparso, di cui rievoca l’opera spesa per 13 anni alla guida della Sezione di Pinerolo e le benemerenze per la ricostruzione del monumento dell’Assietta.
Nel rinnovo delle cariche sociali l’avv. Achille Midana è chiamato alla presidenza, Attilio Fer alla vicepresidenza, incarico che terrà fino allo scioglimento della sezione, e l’ing. Ernesto Bosio tra i consiglieri.
La Rivista Mensile 1895 ci porta due novità, la relazione di una riuscita “carovana scolastica” e quella di un’escursione sociale di tre giorni in Val Pellice. Sentiamo l’anonimo autore della prima (pag. 173): “Da parecchi anni questa Sezione attende modestamente all’organizzazione di carovane scolastiche, specialmente per cura del socio prof. Davide Monnet. Recentemente, il 23 maggio, egli guidò una comitiva di 30 studenti del Liceo e dell’Istituto Tecnico di Pinerolo alla vetta del Gran Truc (2366 m.) in capo alla Valle d’Angrogna, quantunque su quelle pendici vi fosse ancora notevole quantità di neve. Per riuscire la non breve gita si era giunti la sera precedente a pernottare a Peumeano, nel vallone di Pramollo. Al Colle Seiran, sottostante al Gran Truc, la carovana Pinerolese s’incontrò con quella Torinese proveniente da Torre Pellice e scendente a Pramollo e S. Germano”.
La seconda relazione, qua e là vivace e con qualche abbondanza di colore, è di A. Fer (pag. 268) e riferisce di una gita al Boucier, Granero e Meidassa dei soci avvocati A. Midana, A. Fer, G. Maffei, e dell’ing. A. Malvano di Torino.
Pernottano a Ghigo il 13 luglio e il mattino seguente sono al Colle Boucier “…in gran parte ricoperto di neve e di qui i tre primi diedero la scalata alla punta del Boucier. Questa salita è difficile, erta, faticosissima e non scevra di pericoli, specie per chi soffre di vertigini, ciò non di meno i tre alpinisti colla scorta delle brave guide Perotti Claudio di Crissolo, Tourn Ippolito di Rorà e Gilli Antonio pure di Crissolo, riuscirono a conquistare la vetta… La salita si fece dal lato Nord e dopo mezz’ora di permanenza ridiscesero dal lato Sud prospiciente la Val Pellice. Da questo lato il Boucier presenta una parete dirupatissima e la discesa fu ben più difficile ancora della salita e la si dovette compiere con l’aiuto delle corde”. Quindi scendono al Pra e il 15 luglio salgono al Colle Louisas, donde “attaccarono la parete del Granero, di salita poco più facile e meno pericolosa del Boucier… Come se ciò non bastasse, tre della comitiva vollero ancora salire la Meidassa, che è dal Granero poco distante e che non presenta difficoltà alcuna”.
Non si vuole sembrare irrispettosi verso i nostri “maggiori” se si cita qualche ascensione giudicata “difficile” in quegli anni per trovare elementi che permettano un esatto confronto: il Grépon era stato vinto nel 1881, i Charmoz nel 1885, il Dente del Gigante nel 1882. A innalzare l’alpinismo pinerolese a livello di prestigio doveva operare, trent’anni più tardi, il giovane Ettore Ellena.
Si riaccende, a tratti, qualche scintilla di ripresa, così nel 1897 troviamo una gita sociale al Monviso: “…la riuscirono completa i soci dott. Pietro Zanna e i fratelli Emilio ed Enrico Colombini, capitanati dal vicepresidente avv. Attilio Fer: altri due soci, signori Werter Türk e Giuseppe Brignone giunsero solo al Rifugio Sella”; e una al Frioland, da Rorà, sempre sotto la direzione di A. Fer.
Ma ormai tira aria di fine. Nella Direzione del 1898 A. Fer figura presidente, carica per altro ampiamente meritata, ma in quella del 1899 torna vicepresidente, e tale resterà fino allo scioglimento, mentre si verifica una situazione curiosa: non viene eletto, o non si riesce a eleggere il presidente. Al suo posto compare per 5 anni la sigla N. N.; indice di francescana modestia o di evidente stanchezza?
Eppure la Direzione del 1901 annoverava tra i suoi consiglieri l’ing. E. Bosio e gli avvocati A. Bouvier, E. Brignone, Luigi Facta, G. Maffei, A. Midana, una équipe di tutto rispetto, ma anche uno stato maggiore senza truppe. Il numero dei soci si aggira sui 25 e nel 1903 tocca i 22. A questo punto restava aperta una sola strada, lo scioglimento; il che avvenne appunto nel 1903. La sezione sparisce senza che la Rivista mensile le dedichi una riga. All’Assemblea dei Delegati del 1904 il Presidente del C.A.I. esprime rammarico che “Pinerolo sia scomparsa insieme a Belluno”.
Dopo aver seguito in questa lunga galoppata di 27 anni tante vicende e tanti uomini non ci si può staccare senza un po’ di simpatia da quest’angolo dell’Italietta cara a Croce, più esattamente, da questo piccolo mondo antico provinciale piemontese, coi suoi limiti (non ci vuole la perspicacia di un sociologo di grido per individuarli), ma anche con le sue solide virtù di gente proba, seria, civile.
Se i numi tutelari e i buoni auspici hanno il potere di esercitare un’influenza benefica sulle vicende umane, alla Sezione Pinerolese rinata nel 1907 doveva arridere una vita lunga e feconda di opere.
Il suo presidente, avv. Adriano Zola, in una nota (Rivista Mensile, 1908 pag. 70) scrive: “Ricostituitasi il 24 settembre 1907, con l’appoggio amorevole e l’interessamento costante del consocio Valbusa e col plauso incoraggiante della Sede Centrale e delle Sezioni sorelle piemontesi, fra cui specialmente la Monviso, che sul Monte Bracco ne diede l’acqua lustrale il 1° dicembre successivo…” indicandoci i consensi autorevoli che la promossero, la tennero a battesimo e confortarono i suoi vagiti di neonata.
Perché Qualche lettore poco informato non si chieda con meraviglia chi mai fosse questo carneade del “consocio Valbusa” è opportuno precisare che Ubaldo Valbusa, professore di scienze naturali, era un alpinista assai noto, consigliere della Sede Centrale, fondatore dell’Accademico e impareggiabile studioso del gruppo del Monviso, sulla cui topografia aveva pubblicato nel 1903 un lavoro fondamentale, tanto che l’Istituto Geografico Militare, nella revisione delle tavolette al 25.000 della zona, aveva accolto tutte le sue conclusioni.
E gli auspici non andarono delusi, almeno all’inizio. Alla fine del primo anno di vita la sezione contava 168 soci, divisi in varie categorie, aveva varato un programma di 12 gite sociali (di cui 6 effettuate, più 3 aggiunte nel corso dell’anno e 4 fuori programma, per un totale di 13), organizzato durante l’inverno “un servizio di patinoire per la prima volta in Pinerolo, unito a esercitazioni cogli ski”, oltre ad altre attività minori. Di tutto aveva poi dato notizia in un Annuario di circa 40 pagine in carta patinata, ricco di dati e notizie utili.
I progetti per l’avvenire erano ancor più ambiziosi. Sentiamoli direttamente dalle parole dell’avv. Zola (Rivista Mensile, 1908, pag. 70): “Ad affermarsi, la Sezione, oltre ad attendere alla redazione di una guida pratica locale delle vallate del Chisone, del Pellice, del Lemina, delle Germanasche, a costituirsi un corpo speciale di guide e portatori,… con un elenco dei nuovi alberghi accordanti ai soci del C.A.I. lo sconto d’uso, mandò la propria adesione incondizionata al Comitato pro Ferrovia Val Chisone-Oulx, si iscrisse socia fondatrice al giardino alpino “La Rostania”, socia effettiva dell’Associazione per i paesaggi e i monumenti pittoreschi d’Italia…”
Davanti a tanto entusiasmo non sai se ammirare di più la passione sincera che lo anima o il desiderio di fare comunque o certo candore tipico di tutti gli inizi.
Anche la Direzione riuniva uomini che godevano di larga stima in città. A parte l’onorevole Luigi Facta, acclamato presidente onorario, il prof. Valbusa socio onorario, e il presidente avv. Adriano Zola, già citato, troviamo il geom. Luigi Degiorgis, il farmacista Alessandro Stavorengo, il geom. Emilio Gander, il commerciante Luigi Gavuzzi, l’industriale Ettore Mandruzzato e il rag. Pietro Verdi.
E’ interessante notare che questa volta la Direzione non è più, come in passato,appannaggio quasi esclusivo di avvocati, ma risulta più varia e aperta.
Indicativo è anche l’elenco dei soci pubblicato nell’Annuario. Tiene ancora il campo la media borghesia, ma compaiono anche rappresentanti della piccola e, nella categoria aggregati, qualche studente; non figura invece alcun operaio. Dei soci della disciolta sezione sono presenti neppure una diecina. C’è stato dunque un rinnovamento quasi totale degli iscritti, che ha portato nuova vitalità e nuove esigenze.
Un secondo Annuario esce nel 1909, con la stessa impostazione del primo e fitto di progetti (forse sarebbe più esatto chiamarli buone intenzioni): “Istituzione di un piccolo Osservatorio meteorologico e astronomico; costruzione di un piccolo Rifugio alpino sulla vetta del Servin”, ed altri più modesti. Segue il programma gite che ne elenca 12, una al mese da gennaio a dicembre, di livello alpinistico assai limitato. Predominano vette del tipo Vaccera, Cuccetto, Rocciacotello, Tre Denti; la quota più alta è il Ghinivert.
Ma il punto dolente è il numero dei soci; da 168 è sceso a 75, meno della metà. Sarebbe importante individuare le cause di questa falcidia, che ripete da vicino una situazione analoga verificatasi qualche anno dopo la prima fondazione. All’ardore dei primi tempi subentra presto la stanchezza; tra gli altri forse concorrono anche questi due: la relativa ristrettezza della base di provenienza dei soci e la conseguente difficoltà di operare un ricambio tempestivo ed efficace.
Anche se ridotta a metà, la sezione continua a svolgere una certa attività, che non è più documentata da altri Annuari; o mancò la persona adatta a redigerli e pubblicarli, o divennero insufficienti i mezzi, o intervennero altri impedimenti; la serie si arresta al secondo.
D’altra parte la Rivista Mensile testimonia rapporti di interessamento della Sede Centrale per la sezione: nel 1909 le assegna un primo contributo di lire 200 “per lavori diversi”; nel 1910 un secondo di lire 100 “per riattamento di una fontana”; nel 1914 un terzo di lire 300 “per organizzazione dei volontari alpini”.
Dunque la sezione si faceva viva presso la Sede Centrale con richieste giudicate legittime e accolte; il che lascia supporre un minimo di vitalità, anche se il numero dei soci si dimezza ogni due tre anni: se nel 1910 era ancora fermo sui 72, nel 1914 era crollato a 31, nel 1915 a 24, quasi identico a quello che aveva determinato il primo scioglimento. Inoltre l’imminenza della guerra non poteva che dare il colpo di grazia ad una sezione che, già asfittica, si andava rapidamente spegnendo.
I soci del C.A.I. stavano per essere chiamati a ben altri compiti, su altre montagne, con altri attrezzi che non corda e piccozza. In queste condizioni la fine divenne un atto inevitabile, anche se ormai solo formale. Sarebbe stato contro natura tenere in vita un organismo già pressoché spento; tanto valeva dichiararlo ufficialmente defunto, lasciando alla Direzione Centrale il compito di ratificare la decisione. Come avvenne effettivamente nella seduta dell’8 luglio 1916 (Rivista Mensile, 1916, pag. 240): “il Consiglio Direttivo prese atto dello scioglimento della sezione di Pinerolo”. Dieci anni di lotte e di lavori appassionati conclusi in una riga di comunicato, che suona crudele nella sua formula incolore e burocratica.
Sono passati altri dieci anni. La guerra è finita, il fascismo tiene ormai saldamente il potere quando, nel gennaio 1926, un gruppo di volenterosi ricostruisce la Sezione di Pinerolo.
La “Lanterna del Pinerolese” del 6 febbraio pubblica un lungo resoconto dell’Assemblea dei soci, tenuta il 3 febbraio per approvare lo statuto, assegnare le cariche, impostare il programma gite.
Ecco la Direzione del 1926: presidente , ing. G. Molteni; vicepresidente, L. Marchisone; segretario, M. Barra; cassiere, cav. Brizio; consiglieri, Revial, Borgna, Cardonat, rag. Colombo; delegato avv. Pittavino. Ci s’accorge a prima vista che i rapporti tra le varie componenti sociali all’interno dalla Direzione risultano capovolti rispetto al passato: di fronte ai tre laureati o diplomati figurano impiegati, piccoli artigiani, operai.
Se il C.A.I. aveva avuto a suo tempo una struttura elitaria ora si metteva per una strada in parte nuova. Ciò dipendeva da svariati motivi: il rimescolamento tra le classi sociali prodotto dalla guerra, le condizioni economiche degli operai leggermente migliorate, i primi segni di un turismo di massa, gli spostamenti divenuti più agevoli, la stessa quota d’iscrizione portata ad una cifra più accessibile, specialmente per le categorie degli aggregati, predisposta per i giovani, e altri ancora.
Né va dimenticato il fatto che in quegli anni operavano in città alcune associazioni escursionistiche come la Robur e la Usep, che indirettamente contribuirono a preparare il terreno per la rinascita della sezione.
Anche nell’attività sociale osserviamo un netto salto qualitativo; il programma pubblicato nella “Lanterna” comprende in maggioranza vette sui 3000 metri (Boucier, Granero, Viso, Cristalliera, ecc.) di cui qualcuna sarà poi salita per una via alpinistica.
Il resoconto giornalistico citato non specifica il numero dei soci, però lo desumiamo dalle statistiche pubblicate ogni anno nella Rivista Mensile: nel 1927 è di 99, nel 1928 sale a 118, pari all’incirca a quello riscontrato nel 1877 e nel 1907, ma stavolta la tendenza non è a decrescere e crollare; fino al 1940, alla vigilia della guerra, tiene sui 110-120. Gli anni ’50 vedranno poi il boom delle iscrizioni.
Con la condizione sociale cambia il livello alpinistico dei soci; ora abbiamo un gruppo di giovani (Dante Dassano, Ettore Ellena, i due Borgna, Cardonat) in grado di fare da capicordata nelle gite, cioè di guidare e istruire coloro che tentano le prime esperienze in montagna, e organizzare ascensioni per proprio conto a cime e a vie più impegnative.
Essi aprono pure in due direzioni: setacciano i pendii intorno a Pinerolo alla caccia di tutti gli spuntoni e i salti di roccia arrampicabili, e vi tornano sistematicamente per affinare la propria tecnica (nasce così il concetto e la funzione della palestra) e puntano a mete lontane dalle loro vallate, alle grandi montagne e alle vie classiche, che però percorrono con prudenza e progressione graduale, tanto che, in vari anni di attività serrata, non devono registrare alcun incidente degno di nota.
Ellena poi, il più attivo, prende contatto con un alpinista di Torino, Agostino Cicogna, con cui forma una cordata forte e affiatata; insomma, si nota in tutti uno stimolo ad aggiornarsi, a conoscere e usare l’attrezzatura e la tecnica moderna. Questo sferzo, unito alle loro capacità non comuni, produce appunto un processo di svecchiamento e sprovincializzazione dell’alpinismo pinerolese che darà subito frutti clamorosi.
Ormai non s’accontentano più del Boucier o del Palavas, ma scalano il Visolotto e il Vallanta, che allora erano tabù per dei senza guida, ma rastrellano la Valle del Pellice e del Chisone alla ricerca di pareti e creste ancora da salire. Quindi si conquistano i galloni alla Nord del Viso (1931, Dante Dassano, Giuseppe Borgna, Ettore Ellena) che sanziona ufficialmente la loro solida preparazione.
Dopo questo metodico noviziato, mentre gli altri moschettieri rallentano il passo, Ellena spicca il volo che lo porterà, in un crescendo incessante, dalla Vallestretta alle Lavaredo, ai Drus. Ma di lui è detto con maggior ampiezza nell’articolo a lui dedicato, al quale si rimanda il lettore curioso di maggiori particolari.
In quest’atmosfera di slancio, che vede ogni anno qualche giovane accostarsi alla montagna (Edmondo Floreale, Antonio Maina, Grill, Gurgo, Giuseppe Melano, Moriggia, P. Galina, Cipolla) piomba come un fulmine la morte di Ellena, che lascia un vuoto incolmabile. La sezione è salda e regge al colpo senza abbattersi, ma purtroppo l’eredità del caduto va in gran parte perduta. Nessuno ha la decisione e la capacità adatte a prendere il posto. I suoi primi compagni di cordata riducono e lentamente abbandonano l’attività, presi dal lavoro, dal servizio militare, dalla famiglia. Tuttavia non si arriva al vuoto; le gite sociali continuano a farsi ogni anno, il numero dei soci regge bene, qualche cordata si muove per conto suo con una certa vivacità, anche se a livelli più modesti.
Lo stesso Domenico Piazza, che si distingue nettamente dagli altri nel periodo 1933-1938, quando tenta salite più importanti si cerca un compagno fuori Pinerolo, il saluzzese Gagliardone.
Dal 1937 in poi, per qualche anno, una nuova generazione di giovanissimi varca in buon numero la soglia della sede, come una leva di massa. Sono per lo più impiegati e studenti: Ettore Serafino, Aldo Priotto, Italo Arlaud, G. Racca, R. Vola, L. Pivetti, G. Turvani, E. e A. Theiler, F. Godino, F. Brun, e Felice Burdino. Alcuni si limitano a seguire l’attività sociale, altri, più irrequieti, insistono con la Sbarua e si cimentano su vie di difficoltà sostenuta, non ancora ripetute dai pinerolesi, in particolare la Gervasutti e la Rivero.
La prima cordata che osò affrontare la Gervasutti, era a dir poco, pittoresca. A parte l’abbigliamento alquanto approssimativo, calzava ciabatte dalla suola di corda, dette retoricamente pedule, il cui orlo girava, sgusciando subdolo sotto il piede nel momento meno adatto, e ostentava alla cintura una cartucciera di manici di scopa segati in pezzi di varia lunghezza, in previsione di fessure troppo larghe per i chiodi. Con l’aggiunta di un nastro rosso intorno al capo e una penna di gallina fieramente infilata dentro, poteva benissimo passare per un commando di Toro Seduto.
In queste condizioni l’avvento delle prime Vibram fu salutato, non a torto, come l’alba di un’era nuova. Ma né questi spensierati giovanotti, né i loro altrettanto fantasiosi compagni, quando si sentivano ormai preparati, poterono passare alle medie e grandi ascensioni. Il “terreno di gioco” non furono le Aiguilles de Chamonix, come sognavano, forse troppo liricamente, sulle alate pagine di Guido Rey, ma la guerra. Cominciava per loro il non invidiabile destino di “generazione perduta”.
A questo punto è forse opportuno fare un passo indietro, per rispondere a una domanda che certo sarà venuta alle labbra del lettore. Come funzionava la sezione sotto il fascismo, c’erano pressioni politiche, che atmosfera si respirava? Domande legittime, che esigono una risposta il più esatta possibile. Non risulta che i presidenti via via nominati, sia l’ing. G. Molteni, sia i suoi successori, geom. Gander, cap. A. Beisone, ing. P. Martin abbiano svolto un’azione di proselitismo politico nei confronti dei soci. Che ricevessero dall’alto talune sollecitazioni non è affatto da escludere, però si comportarono con tatto e spirito di assoluta tolleranza.
Perciò non fa meraviglia se, al momento della grande scelta, dopo l’8 settembre 1943, un gruppo di soci, giovani e meno giovani, passò immediatamente alla Resistenza, fornendole alcuni dei quadri più vivaci. Come d’altra parte, Dante Livio Bianco a Cuneo, Massimo Mila a Torino, Renato Chabod in Valle d’Aosta, Ettore Castiglioni a Milano, Vittorio Ratti a Lecco, Attilio Tissi a Belluno, per non citare che i nomi più noti e autorevoli. Chi aveva arrampicato in montagna spinto da quell’istinto di libertà, che è una delle più esaltanti suggestioni dell’alpinismo, non poteva (pena una taccia di grossolana incoerenza) non combattere ora materialmente per la libertà sua e del paese. Erano due momenti della stessa azione, attuati con mezzi diversi, ma legati da una logica netta e implacabile.
Per questo motivo, e per altri che non è il caso di ricordare, quei giovani divennero, da alpinisti ricchi di colore, combattenti altrettanto pittoreschi, ma meno spensierati.
Passata la stretta del tifone, e tornati a casa, non dimenticarono il C.A.I. S’incontrarono, discussero il problema e convocarono un’assemblea dei soci (estate 1945) che affidò a una nuova Direzione (presidente A. Theiler) l’incarico di raccogliere i fili spezzati e avviare la ripresa.
Di essa esiste una fedele testimonianza nei Notiziari pubblicati dal 1946 in poi, ai quali il lettore può attingere direttamente.
Gli anni 50-60 sono gli anni che formano lo zoccolo duro della sezione, una nuova generazione si affaccia e tra questi: Paolo Ghersi, Giorgio Feraud, Giuseppe Orbecchi, Sergio Gay, i fratelli Ramella Pezza, P. Piccinelli, Evasio Micca, Franco Stallè, A. De Servienti, Dino Genero, L. Bianciotto e poi Giorgio Griva che nel 1966 diventerà il primo accademico della sezione, Michele Ghirardi, Piero Dassano, Guido Bosco; sono anche gli anni che segnano l’ingresso della sezione nell’élite dell’alpinismo classico.
Iniziano questo splendido periodo che durerà sino alla fine degli anni 80, Dino Genero, L. Bianciotto, e M. Maccagno con la salita della cresta Sud dell’Aiguille Noire de Peuterey nel 1952 mentre sempre Dino Genero, con L. Bianciotto e “Ceo” De Servienti, effettuava già nel 1951 la quarta ripetizione della via Ellena alla parete Nord-Est del Corno Stella nelle Alpi Marittime.
Agli inizi degli anni 60 si affaccia Giorgio Griva, in cordata con lui un altro “grande” Guido Bosco; Giorgio Griva ha il merito di uscire da Pinerolo e a Torino consce i “grandissimi”, Andrea Melano, G. Ribaldone, Alberto Risso, ecc…, frequenta il Bianco assiduamente e primo pinerolese esce dal territorio nazionale va al Kilimangiaro e all’Ararat e nel 1966 è accademico. I primi anni 60 segnano anche l’inizio di un’intensa attività sci alpinistica, gli artefici sono: L. Bonnin, Giuseppe Orbecchi, i fratelli Ramella Pezza, Paolo Ghersi, Luciano Carignano, I. Vairolatti, Attilio Lardone, nel 1961 in una speciale classifica per società i nostri accumulano ben 68.431 metri di dislivello.
Nel 1963 nel tentativo di percorrere la parete Nord della Dent d’Herens muore Guido Bosco, molto probabilmente travolto da una valanga, è il secondo lutto per la sezione dopo Ettore Ellena, nonostante il duro colpo nel 1965 nasce il”CORSO DI ALPINISMO” e la sezione prende nuovo vigore.
In questi anni, dopo Forneron, alla presidenza vanno Italo Arlaud, Felice Burdino, Dino Genero, e gli alpinisti pinerolesi si fanno onore ovunque, le “punte” sono naturalmente Giorgio Griva, Michele Ghirardi, Piero Dassano, Sergio Gay, M. Caneparo, Luigi Vignetta, e le prime salite si sprecano, specialmente nel gruppo del Monviso, nel 1966, la sezione si trasferisce definitivamente in Via Sommeiller e dopo laceranti controversie entra definitivamente in possesso dell’eredità Melano.
Nel 1969 ritorna alla presidenza Italo Arlaud, il popolare “Talin” e tra la fine degli anni 60 e l’inizio degli anni 70 si affacciano Eraldo Quero, Giuseppe Morero, Ugo Griva, Paolo Strani, Giuliano Sciandra, Gianfranco Bivi, Luciano Gerbi, Luigi Bessone, Raul Faraoni, Silvio Fraschia, è forse questo a posteriori un momento assai interessante per la sezione, anche per il fatto che si gettarono le basi per una serie di iniziative che segneranno per molto tempo la vita del C.A.I. di Pinerolo.
Nel 1972 dopo solo un anno di lavoro si inaugura il Rifugio “Melano”, grazie all’impegno volontario e disinteressato di tanti soci e il 1974 passerà alla storia per la prima “Spedizione Alpinistica” della sezione, si va al Lagh Shar Peak (m 6087) nell’Hindukush Pakistano, i componenti sono: Paolo Ghersi, Paolo Strani, Giorgio Griva, Piero Dassano, Luigi Vignetta, Eraldo Quero, Giuseppe Morero, Michele Ghirardi, E. Casale, e Dino Genero capo spedizione, non raggiungono la vetta, si devono fermare a 5600 metri, in compenso conquistano, con Eraldo Quero, Giuseppe Morero e Piero Dassano, il Pinerolo Zoom (m 5420) per la cresta Nord.
Nel 1975 Michele Ghirardi entra a far parte dell’Accademico, due anni dopo nasce il Corso di Sci Alpinismo, verso la fine degli anni 70 nuova linfa viene portata alla già folta schiera di alpinisti, sempre dal corso di alpinismo giungono Sergio Griva, Luciano Manavella, Marco Demarchi, Umberto Valocchi, Marco Conti, Bruno Felizia, Anne Lise Rochat, R. Geuna, G. Difrancesco, Mauro Burdino, Riccardo Andruetto, Ezio Sallen, Franco Barus, le ascensioni sono sempre di alto livello, nel 1982 Giuliano Sciandra, che tra l’altro è già istruttore Nazionale di Alpinismo, viene chiamato a partecipare alla spedizione delle Guide Valdostane al Kangchenjunga, in qualità di medico, ma il suo valore è grande, raggiunge il campo 2 a quasi 7000 metri e risolve un pericoloso congelamento alla mano di Menabreaz, ma lasciamo Giuliano raccontare: “La situazione era questa: mi trovavo a quasi 7000 metri. Il tempo atmosferico stava volgendo al peggio; incominciava già a nevicare e le previsioni non erano fra le più rassicuranti. Inoltre non potevo disporre al campo 2 di tutta l’attrezzatura medica necessaria … decidevo quindi per le misure “eroiche” e sottoposi Menabreaz, dopo averlo informato di tutto, ad un blocco anestetico del ganglio stellato di destra …”.
Nel 1984 la Pro Loco Pinerolo conferisce alla sezione il “Premio Pinarolium 1984” con la motivazione “Per la prestigiosa attività della sezione Pinerolese del Club Alpino Italiano che ha reso onore nel mondo alla città di origine”, anche in merito della riuscita conquista dell’Aconcagua (circa m 7000) che vede in vetta Luciano Manavella, Luciano Gerbi, Giorgio Griva, Paolo Lerda, parteciparono anche alla spedizione D. Franco, C. Nosenzo, Giorgio Betolotto Blanc, e Paolo Borasio. Dopo tanti successi arriva purtroppo un momento tristissimo, in un sol colpo nel 1985 scompaiono cinque carissimi compagni di cordata, un momento che osiamo definire irripetibile e che non possiamo pronunciare senza un brivido di commozione, se ne vanno Marco Demarchi alla palestra Mugniva, Giuliano Sciandra al Pic San Nom, Carlo Santiano al Niblè, Ivo Brogliera al Monviso e Mario Serasio all’Orsiera, mentre l’anno prima Anne Lise Rochat entrava a far parte dell’Accademico. In questi anni una nuova generazione di giovani si affaccia, i nomi che lasceranno un’impronta significativa, ci riferiamo a Massimo Lecchi e Bruno Depetris che nel 1990 cadranno nel segno del destino fatale al Visolotto, Giorgio Bourçet, Carlo Oggero, Aldo Magnano, Pino Manno, Alberto Forneris, Luisa Stallè, Giuseppe Chiappero, fornendo un profondo impegno nell’attività sezionale oltre che sul campo.
Nel 1988 alla presidenza va Giorgio Griva, “Talin” Italo Arlaud lascia dopo venti anni, sarà una presidenza da ricordare, con lui si è costruito il rifugio, si è acquistata la sede sociale, si sono ricomposte le divergenze per l’eredità Melano, si è effettuata la prima spedizione alpinistica extraeuropea, si sono gettate le basi attuali, con Giorgio Griva alla presidenza, si costruisce il “Muro di arrampicata libera Marco Demarchi”, si incentivano le gite sociali, si va infatti in Marocco e si sale in vetta al Gebel Toubkal (m 4167) e all’Ararat (m 5165) in Turchia. Marco Conti e Umberto Valocchi entrano anche loro a far parte dell’Accademico e dopo 4 anni, lascia la presidenza subentrandogli Ugo Griva.
Gli anni 90 sono gli anni di una nuova generazione di alpinisti, che alternano salite di stampo classico ad attività di arrampicata libera, dove si distingue come uomo di punta Donato Lella, nonché Ivano Ghinaudo, Mirella Becciu, Massimo Orbecchi, Gianfranco Rossetto, Andrea Bertea, Danilo Benech, Tiziano Pugese. Si scoprono così nuovi settori di arrampicata: Vallone di Bourçet, Le Barricate (Valle Stura), Monte Bracco, Rocca Laubert (Val Noce), ecc…
Ma quello che è più importante è che la storia continua.
Dai 99 soci del 1926 si è passati agli 850 del 1996, dopo aver toccato quota 1003 nel 1987 (massimo storico), oggi però si assiste alla parabola discendente dell’alpinismo classico, dopo aver vissuto anni decisamente irripetibili si spera in una ripresa dell’attività ad alto livello, puntando sui corsi e sull’alpinismo giovanile, che nel 1990 ha ripreso nuovo vigore. Diversificando l’attività sociale con attività di escursionismo, trekking, speleologia, è infatti operante all’interno della sezione un vivace gruppo che vanta oltre 10 anni di attività ed operando affinché si formino nuovi istruttori che portino linfa vitale ai corsi, il tutto perché il C.A.I. continui a vivere e a prosperare, e a proporre momenti di significativa solidarietà come quando, nel 1976, Giuditta Ruetta fu nominata Cavaliere dell’Ordine del Cardo, per il suo comportamento eroico in occasione dell’incidente toccato al suo compagno di cordata alla Becca di Luseney.
Chi è giunto al termine di un così lungo cammino sente vivo il desiderio di vedere se esista, per una sezione che ha oltre 100 anni di vita, una costante, un principio che unifichi e illumini la sua azione.
Se in mezzo ad una ridda di mode, usi, ideologie che muta senza posa volessimo tentare di scoprire un filo guida che leghi quest’arco di oltre cento anni, non si può affermare altro che il C.A.I. deve la sua fresca giovinezza alla mai interrotta capacità di sintesi tra passato e futuro, una sintesi non statica, ma dialettica, dove le varie tendenze si scontrano, talora con durezza, prima di armonizzarsi in una soluzione che solo raramente è di compromesso.
Ciò vale al di là del piano amministrativo, mentre su quello spirituale intervengono altri fattori più specifici. In questa direzione i lontani fondatori del Club hanno colpito nel segno. Con intuizione istintiva hanno fatto leva fin dal primo momento, ma senza proporlo con noioso moralismo, su due richiami che non hanno mai deluso: il senso della libertà e l’arricchimento dell’uomo con la pratica della montagna; due tra le non molte certezze autentiche di questa povera vita, due aspetti di un’unica realtà; l’antica e la nuova frontiera dell’uomo, la vera, ultima spiaggia.
Nella storia della Sezione di Pinerolo una figura si stacca nitida dalle altre con rilievo e statura fuori del comune, quella di Ettore Ellena. Nel quale l’uomo e l’alpinista sono cresciuti, affinandosi a vicenda, ad un livello nettamente superiore ad ogni altro della sua e della nostra generazione.
Eppure di lui i giovani soci delle ultime leve e parecchi di coloro che sono venuti alla montagna nell’immediato dopoguerra sanno poco, forse perché gli anni che ci dividono dalla sua scomparsa, così densi di fatti tra i più drammatici della nostra storia, respingono in un passato remoto e quasi favoloso gli avvenimenti anteriori.
Ettore Ellena morì il 25 settembre 1933 alla base della Gran Bagna (Valle Susa), di cui aveva compiuto la prima ascensione per la Cresta Sud-Est, il più importante problema tra quelli ancora insoluti nel Vallone della Rho. La guida del Ferreri la descrive così: “lunga , accidentatissima, sottile, in alcuni punti vera lama di coltello, scende con parecchi salti fino a quota 2433. Non sembra percorribile”. Un dislivello di 600 metri, con uno sviluppo quasi doppio: un’impresa di tutto rispetto per il tempo e i mezzi a disposizione.
Ben si addice alla sua fine quando una guida del Breuil disse del grande Carrel: “il n’est pas tombé, il est mort”, per significare che il dramma non è imputabile a incapacità o imprudenza dell’alpinista, ma ad una rottura improvvisa dell’equilibrio fisico, ad uno schianto del corpo sottoposto ad una tensione e ad un sovraffaticamento insostenibili.
Aveva 25 anni, essendo nato a Pinerolo nel 1908. La sua era una famiglia di ortolani che coltivavano un terreno in periferia, nella zona della Tabona, là dove la città confina coi campi e all’orizzonte domina sovrano il Monviso. Una vita breve e un’attività bruciata in uno spazio di sette anni, come di chi presente la fine, ma vuol compiere ugualmente quanto si è proposto. In quest’arco di tempo egli raccoglie una messe ragguardevole di ascensioni, circa 80, oltre a molte escursioni e numerose gite scialpinistiche talora notevoli.
C’è in questa febbre d’azione qualcosa che lo avvicina a Crétier, a Gervasutti, ai migliori insomma, ai quali lo accomuna pure un rapido affinamento delle sue capacità e un deciso salto qualitativo dopo le prime escursioni sulle montagne di casa.
Comincia nel 1926, quando la Sezione del C.A.I. era appena ricostruita e gli mancavano la guida, l’esempio, lo stimolo di compagni più anziani ed esperti e d’una tradizione già saldamente consolidata; non dovette nulla se non a se stesso. Come tutti gli innovatori e i veri maestri fu un magnifico autodidatta.
All’inizio la sua attività è orientata verso la cime tradizionali della Val Pellice e Chisone: Granero, Manzol, Ghinivert, Orsiera per le vie normali; un noviziato umile, lento di chi vuol costruire solidamente, senza bruciare le tappe. Sono tirate interminabili, con l’equipaggiamento primitivo di allora, scarponi chiodati massicci e pesanti, sacchi scomodi e irti di bozze contro la schiena. Ecco un esempio fra i tanti.
Alla data 7 agosto 1927 scrive nel diario d’essere partito da Pinerolo a piedi col fratellino Giuseppe (7 anni) alle 5,45 e giunto alle 8,30 alla Fontana Torino. E a questo punto citiamo testualmente: “Arrivano quei quattro che s’era visti per la strada. Un signore dà una caramella a Giuseppe. Una signora chiede se a Giuseppe l’altezza non faccia male”. Poi continuano per il Colle Sperina, il Sette Confini, il Colle Pra l’Abbà, il Sartoret, il Colle Ceresera dove, colti dalla pioggia, decidono il ritorno. Che avviene per Roccia Vergnon, Forte del Talucco, Talucco. Qui si concedono un pisolino di un paio d’ore, quindi riprendono la strada e sono a Pinerolo alle 21,30. Tappe a parte, hanno camminato circa 12 ore; e la presenta come una modesta passeggiata.
E non possiamo non citare un’altra gita, anche questa del 1927, di quattro giorni, dal 18 al 21 settembre. Pernottamento alla Ciabotta del Pra e trasferta al Ballif-Viso (18 settembre). Il 19 arrampicano sulla Cresta Roma-Udine, con bivacco. Il giorno seguente insistono nell’arrampicata, poi sul tardi, discesa con passaggi emozionanti nel Vallone del Guil e ritorno per il Colle Seylières che, nell’oscurità ormai profonda non riescono a trovare; tentativo fallito di dirottamento verso il Ballif-Viso e secondo bivacco.
Partenza all’alba (21 settembre), arrivo a Bobbio Pellice alle 10,20 e proseguimento in taxi per Torre , treno delle 12,20 ; ma lasciamo parlare il diario perché è più eloquente, nella sua scarna brevità, di un fecondo oratore: “Alle 13,10 si è a Pinerolo e veloci a casa ove si toglie l’ansia ai genitori. Alle 14,15 sono già al lavoro”, cioè a zappare, vangare, sarchiare nell’orto fino a notte ; come relax non c’è male.
Nell’estate del 1927 tenta le prime arrampicate: accademica del Boucier, Cresta Est del Granero, Torrioni del Palavas. Al Boucier e al Granero è secondo in cordata dietro Dante Dassano (ha quattro anni più di lui e possiede già qualche esperienza alpinistica) che gli dà i primi sommari rudimenti; al Palavas, sua terza salita, va già in testa e procede sicuro, senza alcuna esitazione, tanto che, ripetendo la stessa via la domenica successiva, sale da solo, davanti agli altri, guidandoli con consigli e indicazioni.
Intanto scopre la Sbarua che d’ora in poi frequenterà assiduamente. Su questi passaggi tipici perfeziona via via la sua tecnica e il suo stile; prova, desumendole da un vecchio opuscolo (il manuale Chabod è ancora di là da venire) nuove manovre di corda; si allena con tenacia e il metodo rigoroso d’un concertista che si prepara per una tournée importante. E i frutti non tardano a venire.
Del 1929 sono i Denti d’Ambin e una settimana a Courmayeur con la salita del dente del Gigante: i limiti della valle e del gruppo che ancor oggi impacciano tanti bravi alpinisti di provincia sono superati di slancio, e per sempre. L’anno seguente abbiamo una prima, la Est di Punta Traversette, e nel 1931 un mazzo di ascensioni che qualunque accademico di allora non avrebbe disdegnato di scrivere nel proprio carnet: Nord del Viso, Punta Roma per Cresta Sud, Rocca di Miglia e Cammelli, e altre dello stesso livello. Proprio quell’anno avviene anche l’incontro con il torinese Agostino Cicogna, che schiuderà a Ellena nuovi orizzonti: Aiguilles de Chamonix, Drus, Verte e Dolomiti. Nel giro di poche settimane la loro amicizia diviene sempre più profonda; ormai formano cordata quasi esclusivamente insieme.
Ma ecco l’anno decisivo, il 1932. L’attività di Ellena esplode con un crescendo senza precedenti: 24 salite! Tra esse 6 prime (4 in Vallestretta), la traversata dei Drus, il Grépon, e la prima settimana nelle Dolomiti. Attuando per primo in Pinerolo un sistema che Gervasutti contemporaneamente a lui usa su scala maggiore, alterna ascensioni nelle Occidentali con le più significative imprese dolomitiche. Così nel suo diario vediamo sfilare sotto i nostri occhi ammirati la Preuss alla Piccolissima (siamo nel 1932; crediamo si tratti del primo occidentalista a cimentarsi con questa via; Gervasutti, che pure viene dalle Dolomiti, l’ha fatta solo l’anno prima), la Nord della Piccola, il Paterno, il Campanile di Val Montanaia, il Campanile Toro: tutte in cinque giorni.
Ma ormai la sua breve vita volge all’epilogo. Il 1933 è altrettanto ricco di splendidi risultati. Dalla Ciamarella alla Grivola ai primi d’aprile, alla settimana sciistica da Valpelline a Zermatt a Gressoney (una haute route avanti lettera), dalla settimana dolomitica a luglio in Civetta (via Videssot al Pan di Zucchero, via Haupt alla Torre di Valgrande, la parete Sud-Ovest della Busazza) alla settimana a Courmayeur in agosto.
Il tempo è incerto, con piogge frequenti. A Montenvers conosce Gervasutti di ritorno con Zanetti da un tentativo alla Nord delle Jorasses. Riesce a infilare le uniche due giornate decenti facendo la Blaitière e la Verte, con salita del Canalone Whymper e discesa della Cresta del Moine stracarica di neve, che li costinge al bivacco. Il tempo peggiora, non resta che tornare a casa.
Il 2 settembre va alla cresta Sud di Punta Traversette con alcuni giovani di Pinerolo: il diario s’interrompe qui. Sotto la data del 10 settembre c’è solo più un’indicazione: “Val Lemina”. Ellena amava intercalare alle salite impegnative camminate turistiche a quote modeste, in compagnia di amici. Si chiaccherava, si mangiava, si cantava in allegria. Se la gita riusciva bene egli scriveva nel diario una frase, “giornata serena”, come un’oasi di pace e distensione dopo le grosse fatiche.
Forse fu proprio in questo giorno, comunque nella settimana successiva che prese corpo il progetto alla Cresta Sud-Est della Gran Bagna, su invito del compagno più caro, Tino Cicogna.
Fu il suo ultimo appuntamento con la Montagna, quello supremo.
Ma se l’alpinista era di prim’ordine l’uomo non era da meno. L’equilibrio, la vigorosa sintesi tra queste due facce della sua personalità, caratteristica peculiare degli spiriti magni dell’alpinismo, egli la raggiunse presto e la irrobustiva incessantemente.
Talvolta ci tocca assistere al caso limite di un bravo scalatore che, per un insuccesso in montagna o nella vita, attacca la piccozza al chiodo e tronca nel fiore degli anni un’attività che speravamo lunga e feconda. Una causa che ci sembra futile determina così una decisione irremovibile e denuncia una zona di fragilità nella figura che appariva granitica; come un impercettibile difetto di lavorazione in una trave di ferro provoca il crollo di una volta. Il progresso tecnico sforna a fasci strumenti d’arrampicata sempre più sofisticati, ma non è detto che innalzi l’uomo alla statura richiesta dai suoi ambiziosi progetti.
Ellena era immune da tali incrinature perché dotato di un’istintiva modestia che lasciava tentare mete più elevate solo quando poteva raggiungerle in piena sicurezza. Questo aspetto che è tra quelli fondamentali dell’alpinismo, quel senso del proprio limite, così vivo nella tradizione del pensiero greco, che dovrebbe guidare i nostri passi in montagna come una bussola infallibile, egli lo sentiva profondamente.
Tuttavia, come tutti gli esseri superiori, aveva una precisa conoscenza del proprio valore, senza ombra di superbia, unita ad una capacità mai appannata di provare davanti alla montagna emozioni e sensazioni sempre nuove e intense con una singolare freschezza di abbandono e di meraviglia.
Questi slanci dello spirito erano però imbrigliati da qualità tipiche di un piemontese concreto: volontà tenace alla distanza, chiarezza di propositi, attitudine a sopportare a lungo i disagi e a vivere di poco, come taluni ciclisti del passato che, venuti allo sport da mestieri duri, contadini, muratori, carpentieri, erano più corazzati contro la fatica e la malasorte.
A tutto ciò si aggiungano le doti più propriamente necessarie a un alpinista: sicuro senso di orientamento, intuito innato del passaggio e una buona dose di sangue freddo, tale da permettergli di destreggiarsi nei frangenti più precari, di cui gli amici, quando parlano di lui, gli danno concorde riconoscimento.
Ma c’è un lato di quest’uomo che solo i compagni più sensibili hanno colto e individuato: il desiderio tenace di apprendere, di arricchirsi nel campo della cultura. La stessa forza che portava a salire in montagna sembrava spingerlo a conoscere ogni giorno di più; è un’altra passione che lo brucia con altrettanta, se non maggior intensità.
Le condizioni della famiglia non gli permisero di andar oltre la quinta elementare, come toccava allora a migliaia di bambini in Italia. Quando acquista la consapevolezza di ciò che comporta questa menomazione non si abbatte, non si scalmana a inveire contro la società, a chiederle minacciosamente il pagamento di questo debito, il riconoscimento dei suoi indubbi e sacrosanti diritti. Si rimbocca le maniche e rimedia lui stesso.
Di questo suo ideale e della sua tenace, metodica attuazione i suoi diari danno una continua, commovente testimonianza. Il giovane ortolano con la vocazione dell’intellettuale procede, dapprima a tentoni poi con maggior chiarezza, a costruire l’impalcatura del futuro “chierico” con la rabbia del contadino della Langa, caro a Fenoglio, che si conquista la sua terra.
Comincia verso i 14 anni su tre piani diversi, ma convergenti ad un unico fine: opere di tecnica agraria e di allevamento degli animali da cortile, per migliorare il proprio lavoro e portarlo a un livello d’avanguardia (in questa direzione tenta alcune novità che i vicini guardano con curiosità e diffidenza); testi e guide di montagna per poter diventare, più che un nerboruto piantatore di chiodi, un alpinista colto; libri di amena lettura, poi di alto valore letterario per formarsi spiritualmente.
Gli inizi sono elementari (come le sue prime escursioni): Salgari, Verne, Dumas e tutta la letteratura popolare, sia del filone tardo romantico che di quello realistico ottocentesco, che allora circolava ancora da noi. Presto però scopre ben altri orizzonti, i classici: Hugo, France, Flaubert, Turghenjev, Tolstoj (le Memorie, Risurrezione, Anna Karenina sono divorati in due settimane) poi approda a Dostojevskij.
Come in montagna, dal Viso ai Drus, dalla Vallestretta al Pan di Zucchero in Civetta, anche nella scelta degli autori il cerchio si chiude con la vetta più alta e più bella.
Esempio d’una vita vissuta all’insegna d’una rara coerenza, e troncata tragicamente per vendetta della natura o sublimata di colpo perché privilegiata e cara agli dei?
Una domanda inquietante alla quale è difficile dare una risposta sicura.
L’interesse del Club Alpino Italiano verso i giovani risale al lontano 1892, con le prime carovane scolastiche promosse dal C.A.I. di Biella. Nei travagliati anni che ci hanno portato, attraverso le due guerre fino ai giorni nostri, sono innumerevoli le iniziative prive di clamori, basate unicamente sulla buona volontà di soci C.A.I. solitamente in contatto con ambienti scolastici, che hanno portato in montagna, collina, o anche semplicemente per sentieri, giovani delle varie fasce d’età, oltre che di tutte le estrazioni sociali.
A Pinerolo tra i soci C.A.I. più attivi verso il mondo giovanile, negli anni 70-80 troviamo nomi come Aldo Priotto, L. Bonnin, Giuliano Pellerey, Eraldo Quero e Paolo Ghersi che, tra l’altro costituiscono per la prima volta all’interno della Sezione, la commissione di Alpinismo Giovanile, ottenendo poi successivamente Giuliano Pellerey e Marisa Audano la nomina di accompagnatori di media montagna.
Frattanto dal finire degli anni ’80 il CAI a livello Centrale, prendendo sempre più consapevolezza dell’importanza di un’attenzione più mirata al mondo giovanile, elabora le basi di un “Progetto Educativo” che da organicità e stimolo oltre che alle iniziative giovanili in sezione anche all’iter formativo dei futuri accompagnatori di alpinismo giovanile.
Nel 1990 i nostri soci Luigi Barcellari, Giorgio Bertolotto Blanc, Luciano Gerbi e Pino Manno danno vita al primo corso sezionale di Avvicinamento alla Montagna, che raccoglie 32 ragazzi cui si aggiungono nei successivi Corsi annuali sempre nuovi iscritti, fino a superare le 80 unità nel 1995. Anche il numero degli accompagnatori impegnati nell’attività è cresciuto, coinvolgendo man mano Piero Talmon, Mario Bruera, Rosa Bortolozzo, Gianfranco Bivi, Ermanno Bonnin, Ugo Griva, Flavio Maina. Tra gli accompagnatori in primis Luigi Barcellari nel 1994, successivamente Gianfranco Bivi, Pino Manno, Luciano Gerbi, nel 1996 e nel 2000 Alberto Espagnol prendono il brevetto di AAG (Accompagnatori Alpinismo Giovanile) dopo avere partecipato agli appositi corsi istituiti dal Comitato Interregionale LPV. Nel 2002 Aberto Espagnol consegue anche il brevetto di Accompagnatore Nazionale il che permetterà al nostro Corso Giovanile la completa autonomia gestionale (Prima ogni nostro progetto di Corso, come da norme statutarie, doveva essere presentato e approvato da un Accompagnatore Nazionale).
La formula del Corso è ormai efficacemente sperimentata: Quattro attività di un giorno , un fine settimana e una uscita di tre giorni conclusiva intercalate da un paio di lezioni teoriche in sede tra la fine di Aprile e l’inizio di Luglio. I ragazzi sono divisi in due fasce di età, la prima tra i 9 ed i 13 anni e la seconda tra i 13 ed i 18, suddivisi a loro volta in gruppi di 7 / 8 e seguiti per tutto il Corso dai medesimi accompagnatori. Le attività proposte sono mirate a che i ragazzi oltre ad acquistare autonomia e competenze tecniche nella frequentazione della montagna acquisiscano anche la consapevolezza di quanto l’ambiente montano, oltre a che essere luogo dove praticare attività escursionistica e alpinistica, può rappresentare in termini di Storia e Cultura .
A questa “positiva” presentazione non può non fare seguito anche però una valutazione di quanto in concreto questi Corsi hanno inciso in rapporto all’inserimento ed al proseguo nella vita sezionale di tutti i ragazzi che ne hanno usufruito. Obiettivamente, numericamente, molto poco. Ottima frequenza durante i Corsi e poi una minima percentuale di inserimento degli ultra-diciottenni nella vita di Sezione.
Si è cercato di trarre rimedio alla situazione da un lato nel cercare di coinvolgere come nuovi accompagnatori di alpinismo giovanile gli elementi più attivi dei Corsi e dall’altro di offrire ai giovani in generale (al di fuori del Corso) una serie di proposte più articolate e varie durante tutto l’anno ( programma organico di uscite in mountain bike , uscite di facile alpinismo in alta montagna, percorsi di vie “ferrate” ecc..). In questo solco si sono inseriti Fabio Manno, Daniela Colla, Maurizio Valinotti che sono entrati come organico nei Corsi Giovanili dopo avere frequentato un iter base per accompagnatori.
Altri ragazzi sono un po’ a metà del guado e ci auguriamo sappiano fare delle scelte di inserimento e coinvolgimento più avanti.
Complessivamente il problema di come inserire nella vita associativa i ragazzi che escono dai Corsi giovanili rimane però attuale e grande. L’augurio è che comunque il seme lasciato dalle esperienze giovanili loro offerte non secchi e possa germogliare in molti anche con scelte autonome di fruizione della montagna in un prossimo futuro.
A Pinerolo nasce all’interno della Sezione C.A.I. di Pinerolo nel 1956, primo capostazione fu l’avv. Ettore Serafino allora attivissimo, con i volontari Bia dott. Luigi, L. Bianciotto, L. Bonnin, B. Daniele, Dino Genero, Paolo Ghersi, Sergio Ramella Pezza, Giorgio Feraud e Luigi Griva, con istituzione di posti di chiamata in Val Germanasca, Val Chisone, Talucco e Cantalupa, mentre in Val Pellice si organizzava una sottostazione.
Allora era soltanto “Corpo Soccorso Alpino”, ma già come oggi operava all’interno della XIII Delegazione di zona con sede a Torino. Nel 1957 il posto di chiamata di Prali, viene ad assumere una più importante funzione con l’ingresso di 4 volontari del posto, entrano così a far parte dell’organico E. Grill, E. Rostan, O. Pascal e Emilio Rostan. Del Del 1957 è anche il primo importante intervento in montagna, ne dà notizia anche il quotidiano “Stampa Sera” del giorno 21 giugno. Teatro dell’avvenimento era il Monte Cournour ed i protagonista uno studente, Matteo Avanzini, precipitato secondo il giornale per 400 metri in Val Pellice.
Nei primi 20 anni di attività e cioè sino al 1976, la Stazione di Pinerolo effettuava 46 interventi, recuperando 27 persone illese, 17 feriti, 13 salme, Luigi Bia in quell’anno capostazione, nel bollettino sezionale scriveva: “Venti anni sono trascorsi dalla costituzione a Pinerolo del Soccorso Alpino. Quanti ricordi, quante fatiche, quanti esempi di solidarietà montanara.”
A Luigi Bia succede come capostazione Luigi Griva (Gino), il soccorso alpino si evolve, cresce, affina l’operatività, mantenendo però invariata la solidarietà alpina, intervenendo anche in occasioni di disastri naturali. Cresce soprattutto nella rapidità di intervento, cosa fondamentale per un positivo risultato, grazie soprattutto all’utilizzo dell’elicottero e all’operatività del sistema “118”, che garantisce 24 ore su 24 l’intervento.
La Stazione di Pinerolo in tutti questi anni ha sempre mantenuto un’alta professionalità garantendo un organico istruttori di tutto rilievo: Marco Conti, Riccardo Andruetto, Franco Barus, Ezio Sallen e Giorgio Berger.
Dopo vent’anni “Gino” Griva passa la mano a Bruno Giay, da anni attivo volontario.
Dal 2008 subentra come Capo Stazione Dario Fontan.